Il termine “Kintsugi” significa letteralmente “riparare con l’oro“, “ki” oro e “tsugi” ricongiunzione dei pezzi. Una tecnica di restauro ideata alla fine del 1400 da ceramisti giapponesi per riparare tazze in ceramica per la cerimonia del tè. La tecnica prevede che le linee di rottura della ceramica vengano risaldate e unite tra di loro, tramite l’utilizzo della foglia d’oro o della foglia d’argento. Gli oggetti così riparati con questo tipo di tecnica diventano preziose opere d’arte.

Il Kintsugi non è solo una forma d’arte giapponese, ma una vera e propria filosofia. Quando un oggetto si rompe, noi occidentali normalmente scegliamo di buttarlo in quanto non più utile al suo originario utilizzo, o, nell’ipotesi più economica, ci preoccupiamo di ripararlo nascondendo il più possibile i margini di rottura con materiali trasparenti che celino le crepe nefaste. Questa tecnica, al contrario, utilizza un materiale prezioso e ben visibile per trattare quelle fratture di umana fragilità, divenendo così una metafora di vita.

Quando qualcosa in noi si rompe, ne consegue un sentimento di dolore e paura. A questa esperienza spesso si accostano altri sentimenti auto-giudicanti, come la vergogna, il senso di colpa e il fallimento. Seguendo questo flusso negativo di sensazioni, può diventare necessario nascondere, dissimulare, estirpare ogni traccia di quel preciso momento di disarmonia nella ideale “sinfonia eroica” della propria vita.

Nella filosofia orientale, questa tecnica recupera e valorizza qualcosa che ha simbolicamente perso, per un momento della sua esistenza, la sua funzionalità, rimarginando le ferite con il balsamo della cura. Ogni punto di rottura, ogni ferita viene ricongiunta con il prezioso elemento che riveste re e regine. Ciò che era muta la sua forma, ma non il suo scopo: contenere nuovamente ciò che la vita può colmare.

Ogni cicatrice è un punto di rottura, una perdita dolorosa di qualcosa che ci ha lasciati incompleti, indeboliti ed esposti allo sguardo pungente e severo del mondo plasmato da ideali di sana e robusta costituzione. Alcune rotture sono visibili agli occhi, altre solo all’anima. Alcune creano cheloidi, altre follia. Alcune s’incontrano, altre si evitano, ma ognuna di loro rappresenta il preciso istante in cui abbiamo perso il controllo, quando il maestrale, accarezzandoci i capelli, ci ha dimostrato quanto poco robuste fossero le nostre vele. Dissimuliamo e simuliamo, cercando un nuovo equilibrio attraverso l’idealità di una perfezione etica ed estetica.

La pratica del Kintsugi, metaforicamente, ci parla di accoglienza, di trasformazione e di valorizzazione. Accogliere la nostra debolezza come un punto di rottura che conduce a una possibile rivalutazione di noi stessi per giungere a una trasformazione inaspettata. Quando ci “sentiamo a pezzi” ci lasciamo travolgere involontariamente dal flusso, abbandonando l’idea del controllo, ed è in questo momento che attraverso quelle crepe possiamo intravedere una luce che prima non poteva entrare.

Citando Pablo Neruda: “Nascere non basta, è per rinascere che siamo nati… ogni giorno”.

Nella stessa vita possiamo morire e rinascere più volte. In ognuna di queste vite, perdiamo qualcosa e aggiungiamo qualcos’altro. Un ciclo di trasformazioni che non possiamo evitare o nascondere, ma ricongiungere. Questa antica saggezza modifica le ferite in ricami d’oro ed è allora che possiamo riparare da fuori ciò che si è rotto dentro.